ITALYAL'Isola della Rugiada Divina


UNA NUOVA DATAZIONE DELL'ESODO

DEGLI EBREI DALL'EGITTO AUMENTA PER HAR KARKOM LE PROBABILITA' DI ESSERE IL VERO "MONTE DI DIO" DAL QUALE VENNERO PROMULGATI I 1O COMANDAMENTI

(Comunicazione presentata da Aldo Todesco al Simposio Internazionale indetto dal 6 all'11 ottobre 1993 a Temu' (Valcamonica) dal Centro Camuno di Studi Preistorici)

Chi erano i faraoni conosciuti da Giuseppe e da Mose' ?

La Bibbia ebraica offre una varieta' di testimonianze che se fossero tenute nella considerazione che meritano (soprattutto avendo presente il precedente di Heinrich Schliemann che, prestando fede ai racconti dell'Iliade, giudicati dalla critica storica e filologica del tutto fantasiosi, scopri' la citta' di Troia e le tombe dei re Achei di Micene), farebbero perdere consistenza alla tesi ancora oggi maggiormente accreditata negli ambienti accademici, che l'uscita degli Ebrei dall'Egitto sarebbe avvenuta sotto il regno di Ramesse II (1304-1237 a.C.)

C'e' un punto fermo dal quale non ci si puo' discostare: tanto gli archeologi quanto gli esperti di storia universale sono concordi nel fissare l'inizio del regno di Salomone all'anno 961 a.C. Nella Bibbia e' riferito che lo stesso Salomone pose mano ai lavori per la costruzione del Primo Tempio di Gerusalemme quando erano trascorsi 480 anni dalla liberazione del popolo ebraico dalla schiavitu' egiziana.

Il quattrocentottantesimo anno dopo l'uscita dei figlioli d'Israele dal paese d'Egitto, nel quarto anno del suo regno sopra Israele, nel mese di Ziv che e' il secondo mese, Salomone comincio' a costruire la casa consacrata al Signore (I Re, 6.11).

Ora, se si assommano i due dati surriferiti si arriva esattamente all'anno 1441 a.C., che a rigor di logica dovrebbe essere stato piu' o meno l'anno in cui e' avvenuto il famoso Esodo.

Stando all'elenco delle dinastie egiziane compilato nel III secolo a.C. dal gran sacerdote di Eliopoli, Manetone, si riscontra che in quell'anno regnava sull'Egitto, Amenofi II, un faraone della celebrata 18 dinastia. Risalendo ancora piu' indietro, si dovrebbe, per concordanza di date, concludere che il faraone conosciuto da Giuseppe, quando la famiglia di Giacobbe emigro' nel territorio orientale del Delta del Nilo, era Asuerre Apopi I, ultimo re degli Hyksos, che dalla sua residenza nella fortezza di Avaris domino' per 50 anni la parte mediterranea dell'Egitto. E' infatti abbastanza naturale che, per una modesta famiglia di pastori qual era quella di Giacobbe, l'Egitto conosciuto dovesse limitarsi alla zona costiera del Mediterraneo. Giungendo da stranieri in una nuova terra, la loro sfera di interessi non richiedeva che allargassero la cerchia delle conoscenze oltre le autorita' del Paese che li ospitava.

Poco piu' a Sud, confinante con il regno degli Hyksos, sorgeva contemporaneamente un altro Stato, con capitale Tebe. Per i soliti motivi d'interesse, i re delle due capitali entrarono un giorno in conflitto, dando cosi' inizio a una serie di battaglie combattute con scarso impegno da Apopi I ma con molta animosita' da parte del tebano Seqenenre II. (La mummia di Seqenenre, recuperata dagli archeologi, reca evidenti tracce di ferite, che lo fanno ritenere morto in battaglia).

Sparito Seqenenre, le ostilita' furono proseguite da Kamosi e successivamente dal fratello minore, Amosi (1570-1546 a.C.), che e' unanimemente riconosciuto come il vero fondatore della 18 dinastia. Sara' infatti Amosi ad unificare i due regni, facendo dell'Egitto, con la definitiva sconfitta degli Hyksos avvenuta nell'anno 1567 a.C., un unico Stato.

Il particolare della classificazione di questo importante periodo storico col nome di: NUOVO REGNO, conferma la notizia riportata all'inizio del libro dell'Esodo: Allora si levo' sull'Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Giuseppe (Esodo, 1.8).

Un nuovo re il cui dominio si era esteso al territorio di un sovrano scomparso.

Comparando il racconto biblico alle sequenze della lista Manetoniana si ha il seguente quadro:

ai due fratelli citati succede Amenofi I (1546-1526 a.C), che fa mettere gli Ebrei, perche' visti male e con sospetto per essere stati sudditi fedeli degli Hyksos, in schiavitu'. Per limitarne l'incremento demografico, egli non esitera' ad emanare il crudele decreto che ordinava di gettare i neonati maschi nel Nilo. Amenofi I morira' senza lasciare eredi.

Gli succedera' per questo motivo un suo fidato generale, Tutmosi I (1525-1512 a.C.), durante il cui regno dovrebbe essere nato Mose'.

Dal 1512 al 1504 a.C. regna Tutmosi II, che sposa la sorellastra, Hashepsowe, erede del titolo di "Sposa del Dio Amon", dal quale veniva fatta dipendere la legittimita' del trono. Fino alla sua morte avvenuta nell'anno 1480 a.C. Hashepsowe esercitera' un ruolo determinante nel governo del Paese. Rimasta vedova e non avendo eredi maschi, essa condividera' inizialmente il potere con Tutmosi III (1504-1450a.C.), figlio di una moglie minore del precedente marito, Tutmosi II. L'unione tra consanguinei era a quei tempi una pratica tenuta nella massima considerazione perche' conferiva un significato teologico al matrimonio.

All'eta' di 18 anni sale al trono, Amenofi II (1450-1425 a.C.), che governera' inizialmente insieme al padre, Tutmosi III. Dopo la morte di costui, che avverra' due anni piu' tardi, proseguira' da solo nell'esercizio del potere.

Lo svolgimento dei fatti fa presumere che sia durante il regno di Amenofi II che gli Ebrei riuscirono a liberarsi da una schiavitu' protrattasi per non piu' di quattro generazioni, come Dio aveva preannunciato molto tempo prima ad Abramo: Alla quarta generazione essi torneranno qui, in Canaan (Genesi, 15.16).

E' lecito supporre che Amenofi II, pur avendo subito il travaglio delle dieci piaghe mandate sull'Egitto dal Dio degli Ebrei, non sia colui che insegui' fin dentro al mare dei Giunchi la colonna in marcia verso la Terra Promessa, ma che questi sia stato piuttosto un suo Vizir, che per l'alto incarico ricoperto doveva risultare agli occhi degli schiavi in fuga equiparabile al faraone.

Un' altra autorevole testimonianza, che viene a confermare quanto fin qui esposto, si trova nel libro dei Giudici. Con una lettera fatta recapitare al re degli Ammoniti, che reclamava l'immediata restituzione di terre mai appartenute al suo popolo, il giudice Iefte ribatte: "Perche' quando Israele si stanziava in Chesbon e nelle citta' presso l'Arnon, TRECENTO ANNI FA, non avete cercato allora di averle?", (Giudici, 11.26).

E' chiaro che far nascere Iefte 300 anni dopo il regno di Ramesse II equivarrebbe a collocarlo anagraficamente all'epoca di Salomone, il che ovviamente sarebbe assurdo. Ma risolutivo al fine di stabilire una datazione dell'Esodo piu' rispondente al vero si presta il ritrovamento della stele eretta a Tebe nel 1220 a.C. dal farone Merneptah, per celebrare l'esito vittorioso delle sue campagne militari. E' questo il piu' antico documento nel quale Israele venga menzionato nel contesto di un poema di vittoria rimasto famoso: "Israele e' desolato e non ha piu' seme".

Dal tono enfatico dell'iscrizione risalta in tutta evidenza che se c'e' stato un Esodo dall'Egitto questo e' avvenuto sicuramente prima dell'erezione di tale stele. Un fatto incontrovertile come questo rende obbligatoria una prima considerazione, addirittura elementare: Merneptah era figlio di Ramesse II.

Egli regno' per 13 anni, dal 1236 al 1223 a.C.. Suo padre regno' dal 1304 al 1237 a.C., cioe' 67 anni. In totale padre e figlio rimasero sul trono d'Egitto per 80 anni. Com'e' possibile, viene da domandarsi, che in un lasso di tempo tanto ristretto abbiano potuto accadere fatti di una importanza straordinaria quali: la permanenza di Mose' a Madian, l'uscita avventurosa degli Ebrei dall'Egitto, le peregrinazioni nel deserto prolungatesi per 40 anni, la conquista di Canaan, il consolidamento di un'entita' politica ebraica da meritare la speciale menzione che la fa figurare tra le nazioni sottomesse o distrutte dal faraone egiziano? Considerato che la datazione della stele di Merneptah e' certa, e' chiaro che Ramesse II non ha i requisiti per essere il vero faraone dell'Esodo.


Gli Ebrei dell'esodo adoperavano utensili di pietra ?

A ulteriore dimostrazione di una antichita' dei fatti narrati dal libro dell' Esodo maggiore di quella riconosciuta sono da aggiungere i risultati delle esplorazioni che da anni il prof. Emmanuel Anati del Centro di Studi Preistorici della Val Camonica (Brescia) va conducendo nel Neghev. Le intense ricerche svolte nella zona hanno portato alla luce una vasta area denominata, Har Karkom. Tra tutti i siti archeologici finora scoperti nella penisola sinaitica quest'area e' l'unica ad offrire una quantita' impressionante di riscontri topografici, pienamente accordantisi col racconto biblico.

I ritrovamenti qui effettuati, pero', continuano a sollevare interrogativi, che fino ad oggi hanno impedito di riconoscere in Har Karkom la montagna dei Dieci Comandamenti. Si sostiene che dovrebbe essere impossibile che gli utensili di pietra qui ritrovati abbiano potuto appartenere agli schiavi fuggiti dall'Egitto, anche se l'Esodo venisse anticipato da Ramesse II a Amenofi II. L'anno 1441 a.C.appartiene al Medio Bronzo che comunque rimane distante dal Neolitico, obiettano i contestatori.

S'impone allora la necessita' di ulteriori considerazioni. In primo luogo va richiamato all' attenzione che il Chorev, che la Bibbia chiama "Il monte di Dio" Har Ha-Elohim (Esodo, 3.1), era gia' un luogo di culto molto prima che vi arrivasse Mose' in cerca di nuovi pascoli per le pecore di suo suocero Ietro'. L'area interessata costitui' per lungo tempo il centro di raccolta di pastori e nomadi del deserto richiamati dai profondi sentimenti religiosi che il luogo ispirava. Le incisioni rupestri qui ritrovate presentano la figura umana in posizione orante, con le braccia alzate, rivolte verso il cielo, il che fa della localita' una zona preminentemente sacra.

Percio', se e' vero che gruppi di individui si avvicendarono da quelle parti per molti secoli, nulla impedisce che alle testimonianze del passaggio dei primi visitatori, rappresentate dai manufatti in pietra abbandonati sul posto, possano essersi aggiunte quelle lasciate in una fase successiva dagli Ebrei arrivati al seguito di Mose'. Che i reperti recuperati spazino dal Paleolitico all'epoca B.A.C. non contrasta affatto con la possibilita' che a un dato momento sia venuto il turno degli Israeliti di presentarsi all'appuntamento in quel luogo.

In quanto alla diversa appartenenza dei manufatti appena ricordati va sottolineato che il passaggio da un'epoca storica alla successiva non e' detto che debba per forza comportare un taglio netto tra un tipo di civilta' e un'altra. I residui di una civilta' in via di estinzione possono prolungarsi, specialmente in presenza di popolazioni arretrate, fino a coesistere per un certo periodo con le novita' introdotte dal progresso umano a determinare una nuova classificazione della storia.

La domanda da porsi percio' e' la seguente: e' possibile che gli Ebrei usciti dall'Egitto si servissero per le loro quotidiane necessita' di utensili di pietra? La risposta e' inequivocabilmente affermativa: si', essi erano obbligati a portare nel proprio bagaglio attrezzi fatti di pietra, nonostante si fosse gia' a meta' circa dell'Eta' del Bronzo.

Rileviamo, infatti, che al termine dei quarant'anni di peregrinazioni nel deserto, quando gli Ebrei si apprestavano ad attraversare il Giordano per entrare nella Terra Promessa, Giosue' provvide a circoncidere il popolo con degli strumenti di pietra: Giosue' si fece delle spade di silicio e circoncise i figlioli d'Israele sul colle di ha-Araloth (Giosue' 5.3).

A smentire che, riguardo al silicio, si sia trattato di una scelta dettata da motivi ritualistici e' il ricorso alla parola, spade (charvot), al posto di coltello (mahachelet). Accennare ai coltelli anziche' alle spade sarebbe stato in quella circostanza piu' conforme a un indirizzo ritualistico, considerato che di per se' la circoncisione costituisce un fatto di estrema rilevanza etico-morale nei cui confronti la spada, in quanto strumento atto ad offendere fino a recare la morte, male si addice. Non va scordato che l'intendimento da sempre manifestato da Dio e' quello di portare l'umanita' a fare delle spade, aratri e delle lance, roncole (Isaia, 2.4).

L'aspetto ritualistico, che si potrebbe intravedere nella faccenda, caso mai si circoscrive da se' nell'ordine di provvedersi delle spade nuove, perche' quelle gia' in dotazione erano state contaminate dal sangue dei nemici uccisi.

Non e' infine da escludere che se Dio ha preferito rivolgersi a Giosue' parlando di spade cio' possa essere dipeso da un motivo molto semplice, addirittura banale: Giosue' era un militare; sicuramente sovrintendeva all'atelier dove venivano fabbricate le armi. La sua esperienza in questo specifico campo doveva essersi di molto affinata, piu' di quanto richiedesse la capacita' di produrre artigianalmente utensili domestici. Parlargli di spade evidentemente era piu' consono al suo linguaggio. Ma cio' che interessa dimostrare in questo momento non e' tanto il tipo di strumento usato per la circoncisione, quanto far rilevare i materiali a cui gli Ebrei dell'Esodo erano soliti ricorrere.

Che tra questi comparisse anche la pietra appare in tutta evidenza. A questo punto, chi continuasse a propendere per la versione ritualistica potrebbeobiettare che anche Zippora (Esodo, 4.25) circoncise il suo figliolo con uno "tzor", pietra aguzza (che pero' non si sogna di chiamare spada), ma anche questa informazione viene tutt'al piu' ad aggiungersi alle molte che confermano i costumi arcaici forzatamente adottati in una situazione di emergenza da chi si trovava a transitare per il deserto.

Il termine spade introduce, invece, un altro argomento di particolare interesse per la nostra ricerca: quello dell'armamento. E' assolutamente da escludere che al momento di lasciare l'Egitto gli Ebrei abbiano potuto portare con se' delle armi; gli Egiziani non avrebbero mai permesso a degli schiavi di girare armati. Viene quindi spontaneo pensare che l'armamento per il suo esercito Giosue' abbia dovuto fabbricarselo strada facendo, utilizzando l' unico materiale reperibile sul posto: la selce. Se qualche spada di bronzo e' capitata in mano ai migliori ufficiali, questa doveva provenire dal bottino fatto a seguito della sconfitta inflitta agli Amaleciti di Refidim.

Non deve, quindi, meravigliare tanta poverta' in fatto di armi. Benche' siano passati molti anni, constatiamo che la situazione non e' molto cambiata neanche al tempo di Saul e di suo figlio Gionata, i quali - si legge - erano gli unici a portare spada e lancia, mentre il resto dell'esercito combatteva soprattutto con sassi, bastoni e fionde.Cosi' avvenne che il di' della battaglia non si trovava in mano a tutta la gente che era con Saul e con Gionata, ne' spada ne' lancia; non se ne trovava che in mano di Saul e di Gionata suo figliolo (Samuele, 13.22).

Percio', prescindendo dalla collaudata formula: "Al di la' di ogni ragionevole dubbio", e' possibile ritenere (se non tutti, perlomeno una parte), utensili appartenuti agli Ebrei dell'Esodo, e da essi adoperati per ripulire le pelli degli animali macellati a scopo alimentare, i numerosi raschiatoi di selce trovati dal prof. Anati nell'accampamento ai piedi del monte Har Karkom.


Monte Sinai o Chorev?

A completamento di quanto anticipato rimane da proporre un ultimo quesito, che se trovera' la giusta soluzione potra' contribuire efficacemente a risolvere la controversia su Har Karkom.

Cio' che soprattutto e' stato finora d'ostacolo nel riconoscere in Har Karkom il monte sacro, presso il quale sostarono gli Israeliti per ricevere le leggi del Dio invisibile che da tempo immemorabile richiamava, per motivi religiosi e di culto, gli abitanti del deserto, non e' dovuto tanto alla difficolta' di conciliare la datazione dell'Esodo con i reperti archeologici, quanto dalla specifica denominazione di monte Sinai attribuita al luogo della supposta Rivelazione divina.

Quando Mose' vi giunse alla testa del suo popolo quel modesto colle era conosciuto esclusivamente come monte Chorev. Cio' e' confermato dall'unicolibro che, plausibilmente, e' da ritenere scritto da Mose': il Deuteronomio (Devarim in ebraico). Questo libro presenta delle particolarita' che lo differenziano da quelli che lo precedono. In Esodo, Levitico e Numeri i diversi argomenti trattati sono introdotti invariabilmente dalle seguenti parole: "Vaidaber (o Vaiomer) Adonay hel Moshe ecc./E il Signore parlo' (o disse) a Mose' ecc.. Da questa lettura risulta che e' una terza persona a riferire che Dio ha parlato a Mose' dicendogli, ecc..

In Devarim, invece, l'inizio di ogni brano introduttivo di un nuovo argomento e' sempre il seguente: "Vaidaber (o Vaiomer) Adonay helay ecc./E il Signore mi parlo' (o mi disse, a me Mose'), ecc.. Il discorso in questo secondo caso e' diretto, da persona a persona.

Si sa che il libro Devarim ebbe una sorte differente dagli altri prima nominati. Consegnato ai Leviti perche' lo custodissero nell'Arca Santa rimase qui dimenticato per parecchi secoli. Occasionalmente fu il sacerdote Hilkija a ritrovarlo (II Re, 22.8), nel buio locale del Santo dei Santi, dove lui solo aveva accesso, per consegnarlo poi al re Giosia (640-609 a.C.), che dal ritrovamento trarra' lo spunto per promuovere la sua riforma religiosa.

Ebbene, nel libro Deuteronomio/Devarim il nome monte Sinai non compare mai, segno evidente che Mose' doveva del tutto ignorarlo. Per lui il "Monte di Dio" era solo e soltanto il Chorev, come continua a chiamarlo dall'inizio alla fine del suo libro.

A questo riguardo, con una lettura attenta, svincolata dai pregiudizi dell'uomo di fede, chiunque e' in grado di arrivare a delle illuminanti scoperte. Per esempio, in Esodo, Levitico e Numeri si nota che monte Sinai si alterna di tanto in tanto con Chorev. I brani in cui compare il nome Chorev sono senza dubbio i piu' autentici ed antichi, mentre quelli che si riferiscono al monte Sinai sono da ascrivere a stesure tardive del testo, quando con l'edificazione del II Tempio si impose la supremazia dei sacerdoti.

Non a caso la dizione monte Sinai si caratterizza per l'appartenenza a quella che e' stata definita dalla critica biblica, la fonte sacerdotale del testo.

Anche se ultimamente la cosiddetta teoria delle fonti e' andata perdendo credito, e' sempre possibile verificare che monte Sinai si accompagna in modo specifico, prevalentemente alle disposizioni riguardanti l'esercizio del culto e l'osservanza della liturgia.

A maggior conferma, si puo' dare per scontato che la denominazione monte Sinai non fosse entrata a far parte del linguaggio comune nemmeno ai tempi del profeta Elia (IX secolo a.C.). Giunto al Chorev, monte di Dio, Elia entro' nella grotta e vi passo' la notte (II Re, 19.9).

Abbiamo ancora una volta Chorev, monte di Dio, e non monte Sinai. Per di piu', va fatto notare che nel libro della Genesi monte Sinai e deserto del Sinai non sono menzionati. Addirittura, nella lista delle localita' attraversate per arrivare dall'Egitto a Kadesh Barnea (Numeri, cap. 33), il nome monte Sinai non compare mai.

Ovviamente, a un osservatore superficiale potrebbe sembrare che monte Sinai o monte Chorev non faccia differenza. Invece, per la soluzione del problema dell'identificazione di Har Karkom che ci interessa riveste estrema importanza.

Se si pronuncia monte Sinai l'immaginazione si allarga all'intera penisola designata con tale nome, ma se si dice Chorev e' assiomatico pensare a una localita' spostata piu' verso il Neghev, quasi che Chorev, Har Karkom o Neghev riflettano l'identico soggetto.


Dalle testimonianze di antichi autori la conferma dei fatti descritti dall'esodo

Il mancato ritrovamento tra i monumenti dell'antico Egitto di reperti archeologici che documentino la liberazione degli Ebrei dalla schiavitu' ha fatto dubitare a molti studiosi e ricercatori che quegli avvenimenti siano effettivamente accaduti. Le delusioni registrate in questo campo dall'archeologia hanno determinato una rassegnata sfiducia, giustificata soprattutto dalla convinzione che solitamente i grandi personaggi della storia non amano lasciare dietro di se' prove delle loro sconfitte (e l'Esodo degli Ebrei, cosi' come viene raccontato dalla Bibbia, non poteva essere stato per l'Egitto che una sconfitta). Sfortunatamente pero', tutto questo e' finito col far perdere di vista anche quella parte degli scritti lasciati da autori del lontano passato, che riportano notizie credibili in cui si fa cenno a una tumultuosa liberazione di schiavi stranieri dall'oppressione egiziana. In generale, questi scrittori di storia si distinguono per le polemiche condotte contro la nazione ebraica, della quale sono interessati a denigrarne le leggi e le istituzioni piu' che a tramandarne la memoria.

Ovviamente, le accuse infondate e talvolta velenose rivolte alle convinzioni religiose degli Ebrei da idolatri adoratori del sole e degli astri celesti sono da considerarsi, alla luce delle moderne conoscenze, del tutto irrilevanti. Probabilmente e' a causa delle falsita' tramandate da questi autori se sono andate scartate dai piani di studio anche quelle parti delle loro opere che inattendibili non erano. Ma se si sfrondano tali racconti dalle evidenti esagerazioni e dalle intemperanze della polemica si scopre che, ridotti all'osso, gli argomenti trattati finiscono per combaciare perfettamente con le notizie riportate dal testo biblico.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i piu' utili in questo senso risultano essere proprio gli scritti di autori che a giusta ragione andrebbero classificati, secondo il metro di giudizio dei nostri giorni, tra gli antisemiti ante literam. A capofila di questa nutrita schiera si pone il gia' citato sacerdote di Eliopoli, Manetone del III Secolo a.C.

Incaricato di redigere la storia delle dinastie egiziane, costui afferma di essersi trovato tra le mani documenti importantissimi depositati negli archivi reali istituiti presso i templi pagani. La lettura di questi documenti offre l'opportunita' di ricavare dagli stessi l'interpretazione che gli Egiziani davano alle imprese condotte a termine da un personaggio le cui vicende sono un chiaro riferimento a Mose'. Manetone si sofferma a descrivere nei particolari l'identita' di quest'uomo da lui definito Egiziano e non manca di illustrare, come ritiene meritasse, la figura del faraone che a quel tempo regnava sull'Egitto. Stando ai testi sacri da lui consultati, l'Egiziano si sarebbe chiamato, Osarseph, da Osiride dio di Eliopoli, mentre il faraone sarebbe stato nientemeno che il re Amenofi, gia' menzionato in queste note.

Secondo Manetone, questo Osarseph/Mose', che gli Israeliti avrebbero eletto a loro capo, sarebbe stato un lebbroso che per disprezzo delle divinita' e del culto dei suoi compatrioti avrebbe accettato di porsi alla testa di una massa di derelitti, affetti da malattie degradanti, tanto da meritare di essere bandito dal paese, soprattutto a causa di sue imprecisate malefatte (probabilmente per l'uccisione del guardiano Egiziano ricordato in Esodo, 2.12).

Effettivamente, se si va a controllare nella Bibbia si scopre che Mose' fu in gioventu' bandito dall'Egitto.

Per trovare il filo logico del ragionamento di Manetone occorre pero' saper superare l'istintiva avversione che destano le conclusioni a cui egli giunge dopo essersi studiati i documenti di parte egiziana. Per un'esatta valutazione dei fatti vanno tenuti presenti due aspetti fondamentali del problema: da un lato, i limiti della conoscenza scientifica di quei tempi, che giustificano gli errori commessi involontariamente; dall'altro, la particolare predisposizione degli Egiziani a registrare con puntigliosita' gli avvenimenti della vita quotidiana, che invece inducono a prestare fede alle nude cronache.

Presso Egiziani e Babilonesi, da tempi antichissimi, i sacerdoti per gli uni e i Caldei per gli altri sono stati incaricati delle registrazioni ed hanno su queste meditato (Giuseppe Flavio in Contro Apione, VI.28).

L'uscita degli Ebrei dall'Egitto e' stata, come si sa, la conseguenza di una serie di pestilenze. Era ovvio che per i superbi faraoni, da se stessi proclamatisi de'i, le famose dieci piaghe fossero disgrazie portate dai mendicanti che affollavano le citta'. Si spiega cosi' come essi abbiano potuto formarsi la convinzione che responsabili di ogni malanno fossero gli schiavi Israeliti ai quali addebitavano la colpa di essere scabbiosi e lebbrosi. Che questa accusa generalizzata fosse infondata e' provato dalle severe disposizioni impartite da Mose' e codificate nelle norme della Torah, di tenere chiunque presentasse il minimo segno di tale infermita' fuori dall'accampamento: la vicinanza di Dio era condizionata dalla predisposizione di un apposito spazio, asettico e mantenuto in assoluto stato di purezza per cui, se fossero stati tutti lebbrosi gli Israeliti, non avrebbe potuto esserci accampamento puro, ne' tanto meno presenza di Dio in mezzo a loro.

Quando conflitti come quello descritto si producono, di solito le parti in causa sono portate a scaricarsi reciprocamente addosso tutto cio' che si presenta ai loro occhi sgradevole. Come esempio di questo comportamento si potrebbe citare cio' che si e' ripetuto nel Medio Evo con le malattie veneree: i Francesi chiamavamo la sifilide "morbo celtico", mentre i Celti, di rimando, chiamavano la stessa cosa "mal francese". Gli Ebrei, in quanto schiavi, naturalmente non erano in condizioni di esercitare uguale facolta' di rimando, percio' si presero le ingiurie senza possibilita' di reagire.

Il faraone non sarebbe mai stato disposto ad ammettere di essere lui ad attirarsi addosso il flagello, con l'ostinato rifiuto a concedere ai suoi schiavi il permesso di recarsi nel deserto a prestare culto al proprio Dio; e quando il Dio degli Ebrei manifestera' la sua presenza, per forzare il faraone a lasciar partire il popolo oppresso, e' inevitabile che egli pensi di trovarsi di fronte all'oracolo del dio Amon che gli ingiunge di cacciare dal paese i portatori dell'infezione. E quando l'ultima piaga si abbattera' sull'Egitto, a lui non rimarra' alternativa che mandar via quelli che definiva "gli impuri", fossero essi Ebrei o no, come attesta la Bibbia. E anche una quantita' di appartenenti a varie popolazioni si accodarono a loro (Esodo,12.38).

Che gli Ebrei non se ne siano andati pacificamente dall'Egitto, ma che siano stati letteralmente scacciati, e' scritto nella Torah. E gli Egiziani fecero pressione sul popolo per mandarli via al piu' presto (Esodo, 12.33).

Dalle deduzioni tratte da Lisimaco di Alessandria (II Secolo a.C.), la sorte di quei perseguitati sarebbe stata la seguente:

"Abbandonati in luoghi deserti, si riunirono per deliberare sulla propria situazione. Un certo Mose' consiglio' loro di percorrere, esponendosi al pericolo, una sola strada fino a raggiungere luoghi abitati; consiglio' inoltre di distruggere i templi e gli altari degli de'i in cui si fossero imbattuti. Approvata la decisione, attraversarono il deserto e dopo molte sofferenze giunsero alla terra chiamata Giudea e vi fondarono la citta' di Gerusalemme".

In quanto al rimprovero mosso a Mose' di essere anche lui un lebbroso, cio' puo' spiegarsi col potere che ricevette al monte Chorev, di mutare la sua mano da sana in lebbrosa e viceversa, quale prova da esibire ai suoi confratelli Israeliti, che Dio gli era veramente apparso. Il Signore gli disse ancora: "Metti la tua mano in seno". Egli la mise e ritirandola vide che essa era lebbrosa, bianca come la neve (Esodo, 4.6).

Il riferimento poi al supposto odio nei confronti dell'Egitto attribuito dagli autori pagani a Mose', la smentita piu' efficace viene dalla solenne prescrizione dallo stesso impartita nel deserto: Amate dunque lo straniero, poiche' anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto (Deuteronomio, 10.19).

L'origine di questo equivoco probabilmente dev'essere fatta risalire al gran consumo di agnelli e capretti avvenuto la notte della partenza dall'Egitto, che e' rimasto nella tradizione ebraica tra i ricordi della celebrazione del primo Seder di Pesach. Manetone e tutti gli idolatri come lui non potevano capire che l'ordine di banchettare con la carne degli ovini era dettato dalla necessita' di cancellare dalla mente degli Israeliti, prossimi alla partenza, ogni residuo delle convinzioni religiose assorbite durante la schiavitu', in base alle quali degli innocui animali domestici, che gli Egiziani adoravano al pari di de'i, avrebbero dovuto continuare ad essere tenuti in conto di vere e proprie divinita'. In previsione dell'appuntamento che li attendeva al monte Chorev, dovevano liberarsi da simili assurdita' e tornare a considerare gli animali semplice cibo per gli uomini.

Sorprendente appare invece la perfetta coincidenza che si riscontra tra il racconto biblico e cio' che Manetone afferma di aver trovato nei testi sacri egizi da lui consultati. La moltitudine di schiavi condotta da Osarseph, detto Mose', verso il deserto avrebbe a un certo punto svoltato per andarsi ad accampare nei pressi di Pelusio. Secondo la versione fornita da Mose' sarebbe stato il Dio degli Ebrei ad ordinare questa improvvisa diversione. Il Signore penso' che assistendo il popolo a combattimenti avrebbe potuto pentirsi e far ritorno in Egitto. Il Signore fece dunque deviare il popolo attraverso il deserto arabico verso Jam Suf (Esodo, 13.18).

Jam Suf che in ebraico significa, mare dei Giunchi, verra' molti anni piu' tardi cambiato in mar Rosso, ma chiunque puo' verificare che nessun canneto puo' crescere nelle acque salate del mare.

L'inattesa notizia fatta arrivare alla capitale dalle guarnigioni di frontiera sarebbe risultata incomprensibile al faraone, tanto da essere giudicata una provocazione. Mobilitata in fretta e furia la cavalleria, egli si sarebbe gettato all'inseguimento dei fuggiaschi, deciso questa volta a sterminarli.

Il luogo dove gli Israeliti si accamparono, che Manetone indica in Pelusio, si trova esattamente a ovest della laguna Serbonis, laddove fu comandato a Mose' di dirigersi. Sorge qui ancora oggi una vasta palude ricoperta da canne lacustri. Di'ai figli d'Israele che retrocedano per accamparsi in faccia a Pi-hachirot fra Migdol e il. mare, dirimpetto a Baal Tsefon (Esodo, 14.2).

Le localita' summenzionate (Pi-hachirot corrisponde a Bocche dei Canali; Migdol corrisponde a Torre di Guardia; Baal Tsefon corrisponde a Signore del Nord) sorgono tutte a nord della penisola sinaitica, il che annulla ogni possibilita' per la vetta d'aspetto olimpico segnalata sulle carte col nome di Santa Caterina di essere stata l'autentico luogo dove e' avvenuta la proclamazione dei Dieci Comandamenti.

Riferisce Manetone che all'ultimo momento il faraone si sarebbe astenuto dall'attaccare l'accampamento degli Ebrei, per non dover combattere - dice lui - contro degli de'i. Sembrerebbe invece che al faraone accadesse di assistere a qualcosa di terrificante, che doveva spaventarlo a morte.

L'Angelo di Dio, che precedeva il campo d'Israele, si mosse ed ando' a porsi alle loro spalle; contemporaneamente anche la colonna di nube si colloco' all'indietro e venne cosi' a trovarsi tra l'accampamento d'Israele e quello degli Egiziani, cosicche' si produsse densa oscurita' per gli Egiziani, mentre per gli Ebrei vi fu piena luce l'intera notte mediante la colonna di fuoco (Esodo, 14.19).

Abbandonato precipitosamente il campo, la corsa del faraone non si arresto' nemmeno in prossimita' della capitale del suo regno, ma fu talmente travolgente da portarlo addirittura a finire in Etiopia.

Lasciati soli, gli ufficiali egiziani pensarono di dover proseguire l'inseguimento degli Ebrei, come da ordini in precedenza ricevuti: lanciatisi lungo la striscia di sabbia che separa il Mediterraneo dalla laguna si ritrovarono con le ruote dei carri staccate, quando all'improvviso un'ondata gigantesca spinta da forte vento supero' lo stretto corridoio sabbioso travolgendo dall'alto gli inseguitori. Il Signore sommerse gli Egiziani in mezzo al mare. Le acque riprendendo il loro stato normale ricoprirono carri, cavalleria, tutto l'esercito egiziano che era entrato nel mare. Non ne rimase neppure uno (Esodo, 14.27).

In questo modo gli Ebrei conobbero la potenza del Dio che era venuto a liberarli dalla schiavitu' per farne il suo popolo,. Inchinandosi a questo Dio capace di realizzare miracoli e prodigi mai visti, essi stringevano con Lui un Patto che li impegnava a mettere in pratica, nella nuova terra dove li avrebbe condotti, i precetti e i comandamenti che avrebbe impartito.

ALDO TODESCO

35110 PADOVA

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